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LO SPIRITO D'ADATTAMENTO DELLE CITTA' di Elena Comelli da Il Sole 24 Ore del 25 Novembre 2012

25 novembre 2012

Adattamento è la nuova parola d'ordine per gli scienziati del clima. A
ogni nuovo uragano, a ogni ondata di siccità, l'interesse degli esperti
si allontana sempre più dall'eterno quesito "sarà colpa dell'effetto
serra?" per focalizzarsi sulle strategie di sopravvivenza delle comunità
più colpite.
«Le città si adattano o se ne vanno», ha detto il sindaco di New
York, Michael Bloomberg, dopo l'uragano Sandy. E anche alla conferenza
Onu di Doha sul Climate Change, che comincia domani, si parlerà molto di
"resilience", quella capacità di recupero che manca ai moderni
insediamenti urbani. Nella relazione sul clima pubblicata la settimana
scorsa dall'Agenzia europea per l'ambiente, si prevede che gli eventi
climatici estremi diventeranno sempre più intensi anche da questa parte
dell'Atlantico. Che fare, per limitare i danni? Imparare
dall'esperienza. «Negli ultimi 50 anni, i danni causati dai disastri
naturali sono cresciuti esponenzialmente, anche per l'aumento della
popolazione globale e delle sue attività economiche», sostiene il noto
climatologo americano Roger Pielke. Là dove prima un'onda anomala si
abbatteva su una costa deserta, senza danni, oggi si abbatte su un
villaggio, con tutte le conseguenze del caso. «Ma non bisogna
rassegnarsi all'idea che le emergenze aumentino di pari passo con le
attività umane», afferma Pielke. Il suo collega William Hooke,
dell'American Meteorological Society, concorda e porta l'esempio
dell'aviazione civile: «Nello stesso arco di tempo, il numero di voli è
quadruplicato, ma gli incidenti sono rimasti costanti, o addirittura
sono calati». Qual è la differenza? Dopo un disastro naturale, l'istinto
porta a ricostruire tutto com'era prima. Dopo un disastro aereo,
invece, la prima preoccupazione è cambiare la struttura del velivolo,
nelle parti che potrebbero essere all'origine del disastro. Chi ha
ragione? L'industria aeronautica, naturalmente.
Ma ci sono anche città che non si rassegnano. Chicago ha
in corso un progetto per eliminare l'asfalto da un quarto delle sue
strade, che vengono trasformate in viali alberati con una pavimentazione
permeabile all'acqua, che in caso di piogge torrenziali le trasforma in
fiumi. Stuttgart ha modellato la sua pianificazione urbana sulle
esigenze di mitigazione dell'isola di calore che si forma sulla città:
grazie a un monitoraggio, sono stati individuati i corridoi del vento e
per non ostruirli sono state vietate le costruzioni alte su quei
tracciati. Seul, dopo aver tenuto per cinquant'anni il fiume
Cheonggyecheon imprigionato nelle sue viscere, ha smantellato
l'autostrada che ci correva sopra e lo ha restituito alla luce del sole.
Yonkers, quarta città dello Stato di New York, ha fatto lo stesso con
il fiume Sawmill. New York sta ripristinando le vaste aree umide che
erano state bonificate lungo le sue 500 miglia di coste e ha vietato la
ricostruzione di centinaia di case spazzate via dall'uragano. Kuala
Lumpur ha costruito uno Smart Tunnel sotto il centro, per incanalare una
parte del traffico, ma anche per sfogare le acque che montano in caso
d'inondazione. E questo è solo l'inizio. Siamo abituati a compilare una valutazione
d'impatto ambientale per qualsiasi impianto, dal pannello solare a un
nuovo aeroporto. Lo stesso tipo di valutazioni andrebbero fatte anche
per gli edifici. Ricostruire là dove non c'è sicurezza del futuro non ha
senso. A maggior ragione, costruire edifici o insediamenti nuovi in
aree che sarebbe più ragionevole lasciare vuote mette a rischio intere
comunità. Pianificare guardando lontano e in sinergia con la natura è la
prima difesa contro i cambiamenti climatici.


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