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NAVIGLI E PANDEMIA. RIFLESSIONI. di Andrea Cassone - 6 maggio 2020

06 maggio 2020

I contributi di Riaprire i Navigli sul tema: I NAVIGLI E MILANO DOPO IL CORONAVIRUS

4 di Andrea Cassone - 6 maggio 2020
NAVIGLI E PANDEMIA. RIFLESSIONI.

La pandemia COVID-19 causata dal virus Sars-CoV-2 ha determinato uno stato “di clausura”, normato a partire dal decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020 e attuato mediante successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, stato che dura ormai da quasi due mesi e mezzo.
Definisco “di clausura” lo stato che viviamo ancora oggi, in Italia, alla vigilia della cosiddetta Fase 2, perché è, di fatto, uno stato di vita in uno spazio definito e chiuso, benché solo parzialmente esclusivo, condiviso in base a norme accettate. La quarantena è un’altra cosa, presume infatti un’infezione in essere, o la presunzione di tale infezione, circostanza che per molti nostri cittadini è evidentemente infondata. L’antico termine clausura ha inoltre un’efficacia descrittiva anche in relazione agli effetti di tale stato sulla “visione” del mondo di chi lo accetta, lo condivide e, almeno in parte, lo subisce.

Che effetti ha avuto lo stato “di clausura”?
Ha portato quasi tutti a vivere in modo diverso dal solito il tempo e lo spazio degli ambienti di vita, a provare un forte senso di vulnerabilità e infine a provare paura. A quanto pare proprio il timore, la paura sono oggi sentimenti più diffusi fra i giovani ancor più che fra gli appartenenti alle fasce di età avanzate, maggiormente colpite dalla pandemia. E’ sorprendente fino a un certo punto: è indizio di un cambiamento profondo.
All’interno delle abitazioni, gli ambienti di vita par excellence della clausura, abbiamo potuto incontrare le qualità del nostro tempo, del nostro spazio e delle nostre possibilità. La qualità si manifesta più netta quanto più la quantità si riduce o è meno disponibile, essendo la prima irriducibile alla seconda. E’ quel che ci è successo: la percezione della qualità del nostro vivere, resa possibile dalla clausura, si è estesa dallo stato attuale anche e soprattutto allo stato precedente la pandemia, alla percezione della qualità del nostro vivere prima della clausura cioè e ci ha portato a divenire progressivamente più consapevoli del nostro effettivo benessere.

Parliamo qui di benessere nel senso in cui ne parla la Carta di Ottawa per la promozione della salute (Ottawa Charter for Health Promotion, 1986), firmata da tutti gli stati appartenenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), un documento veramente rivoluzionario, mai sufficientemente promosso, parliamo cioè del benessere psicofisico delle persone come possibilità di vita piena e - perché no? - di felicità.
Ricordiamo quanto insegnato da Aristotele, teorizzato da Gaetano Filangieri, un grande riformatore e ante litteram riformista, poi espresso nella superba Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) in cui il perseguimento della felicità appunto è uno dei diritti fondamentali delle persone, di un popolo.
Qualità e benessere: chi siamo e come viviamo veramente? E alla domanda si può rispondere solo facendo ricorso ai ricordi, alla memoria, ai fondamenti della nostra identità. Come scrisse Wilhelm Reich tanti anni fa “L'amore, il lavoro e la conoscenza sono la fonte della nostra vita. Dovrebbero anche governarla.”.
Abbiamo imparato dall’infezione COVID-19 che lo spazio esterno, l’ambiente fisico della nostra vita, sia esso silvestre, urbano e rurale, è tanto più prezioso quanto più in esso si abbia la possibilità di essere autonomi e autosufficienti. Abbiamo bisogno di spazi in cui la qualità si fondi sulla disponibilità di risorse (aria, acqua, suolo, vegetazione) e di energia. Abbiamo bisogno di tempi che ci permettano di fruirne, poi. Abbiamo bisogno di tempi più adeguati alla percezione dei mutamenti naturali, tempi interiori, tempi d’attenzione da dedicare alla conoscenza e alla cura di noi stessi.

Che relazione può avere tutto ciò - qualità, benessere, felicità - con i navigli, con la loro riapertura e reinvenzione, con una difficile ripresa lavorativa alle porte?
Molto, davvero molto più di quanto si possa immaginare.
Il nuovo paesaggio urbano sarà necessariamente un paesaggio a misura di spazi e tempi di lavoro ormai diversi o vissuti diversamente, un paesaggio in cui riscoprire la propria identità e ritrovare la memoria dell’eredità e della formazione che abbiamo ricevuto, un paesaggio rassicurante. Nei prossimi mesi la transizione dalla cosiddetta Fase 2 alla normalità potrebbe essere più disagevole del previsto e comunque dobbiamo pensare, con coraggio, a riformare il nostro modo di vivere nell’arco, al massimo, di una generazione.

I navigli sono un simbolo perfetto di tutto ciò e dobbiamo imprimere una decisa accelerazione alle azioni volte all’acquisizione di tutte le risorse necessarie per riaprire il tratto urbano, la Martesana e la Fossa Interna, dalla Cassina de’ Pomm alla Darsena. Risorse umane innanzitutto. Opera pubblica rilevante, il naviglio è oggi occasione di lavoro qualificato e qualificante è opera antica nella sostanza (un canale) e modernissima nella forma (un’infrastruttura con i controfiocchi per le nuove tecniche, per le reti).

La riapertura è, poi, un’opera civile, l’opera di una comunità, di un popolo deciso a consolidare la solidarietà precaria stabilitasi nel fronteggiare la pandemia e a farne il motore di una nuova via, il simbolo di un “new deal”, di un piano di riforme economiche e sociali coraggioso e orgoglioso.
Orgoglioso del recupero, possibile solo attraverso i navigli, di una storia, di una memoria, di un’identità fondante la qualità milanese, perfettamente incarnate nella figura di Francesco Sforza, sotto la cui signoria si diede avvio alla realizzazione della Martesana (1460).
Comunità aperta, fondata sul lavoro, in una lunga storia di continuità e innovazione, di progresso e di perfezionamento. Navigli vuol dire acqua, vuol dire cioè ingegneria idraulica, vuol dire agricoltura, vuol dire manifattura, artigianato, arte, vuol dire industria, impresa, locale e globale, vuol dire, in una parola, ossatura di un’economia varia, equilibrata e policentrica, in cui risolvere (come con lungimiranza fu previsto dalla cosiddetta scuola urbanistica di Milano (intorno alla figura di Lucio Stellario d’Angiolini) la gran parte delle contraddizioni esplosive dell’assetto territoriale e produttivo degli ultimi quaranta anni.
Meritoriamente il 1 Maggio, la Rai ha ritrasmesso Novecento di Bernardo Bertolucci, un bellissimo film da cui emerge corale e potente, nel bene e nel male, la forza trainante del nostro ultimo, in larga parte tragico, secolo: il lavoro.

Un altro bel film sull’argomento, da rivedere e su cui meditare, è l’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, in cui fra l’altro il naviglio è anche il paesaggio, il vero protagonista di molte scene. La richiesta, l’urgenza dell’emancipazione sociale, attraverso le organizzazioni operaie (e per inciso che bella parola “opera”, così antica, così socialista! E’ da preferirsi a lavoro, termine che riecheggia le atrocità compiute nel suo nome e che anticamente significava occupazione faticosa, travaglio), di cui i film sono testimonianza, sia pure in modi profondamente diversi, si è tradotta dunque nell’aver chiuso vie d’acqua, fossi, polle, risorgive? Nell’avere costruito su suoli di impressionante qualità colturale? Nell’avere fatto della città un’efficiente macchina di produzione di capitale quasi a ogni costo, finalizzata alla formazione disperata di una qualche forma di plusvalore, nascosta dietro le parole d’ordine di progresso, contemporaneità, globalità, sostenibilità e chi più ne ha più ne metta?
La nostra è stata la rivoluzione dell’asfalto, del cemento, delle plastiche; una rivoluzione che anziché liberarci ci ha definitivamente inceppato, imprigionati come siamo nella desolante mancanza di libertà e di prospettive che sentiamo sottopelle, infaticabilmente al lavoro dietro la raffinata riedizione dei telai della prima rivoluzione industriale: i personal computer, gli smartphone. Il doppio volto delle trasformazioni è evidente e inquietante. E sappiamo bene che il vero problema è il governo dei mezzi, dipende da noi è nostra responsabilità; le cose sono innocenti
L’equilibrio da ritrovare – la vera liberazione – è il frutto di un operare fondato sulla qualità, qualità che richiede il giusto tempo per manifestarsi, sia nel bene, sia nel male. E che nel male permette, quasi sempre, la riparazione.
L’illusione di una finta liberazione, basata solo e sempre sulla quantità con-duce a un mondo governato di fatto solo dal numero (nel senso più infimo del termine). Evidenza ne sia lo scatenamento di tabelle, dati, analisi, etc. delle recenti settimane, l’uso perverso delle statistiche etc. I veri statistici, preziosissimi, cercano il quid dietro le rilevazioni, cercano di indovinare, di disegnare la figura nascosta dietro al velo. I navigli sono qualità, misurare l’opportunità di riaprirli in base a valutazioni puramente quantitative è miopia.
La qualità, la buona qualità, s’accompagna quasi sempre a benessere e ricchezza.

Ricominciamo allora dalla nostra memoria e da ciò che, come i navigli, ne sono incarnazione vivente. Riscopriamoli in noi, nel nostro rimosso; affrontiamo l’analisi, riportiamo alla luce ciò che ci siamo rifiutati di integrare nella nostra esistenza. Dalla psicoanalisi può venirci un grande aiuto alla comprensione del meccanismo in base al quale ci siamo liberati proprio di ciò che è simbolicamente vita al massimo grado: l’acqua.
E ripartiamo da quell’opera collettiva, da quell’idea riformista e sovranazionale, comunitaria e sociale che sola potrà dare a Milano un’equilibrata personalità urbana, fuori dagli slogan, dalle semplificazioni, andando invece alla sostanza, all’osso per così dire.




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