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NAVIGLI, REFERENDUM E PRIORITÀ di Alberto Lipparini da Arcipelagomilano.org

11 dicembre 2012

Ora è tutto più chiaro: bisogna costruire una scala di priorità (immutabile come ogni scala che si rispetti) fra i problemi che riguardano la nostra città e il suo aspetto. E io che credevo che i Navigli fossero a Milano e che anzi le avessero dato storicamente la forma urbanistica che ancora mantiene dopo un millennio e l’aspetto irripetibile che, ai molti che se ne innamorarono, essa mostrava fino a una dozzina d’anni prima della mia generazione!
C’erano, risponde Beltrami Gadola: ma ora sono situati in fondo a quella scala, poiché l’intervento sul “fiume sepolto di Milano” sarebbe di tipo paesaggistico e quindi non stimolerebbe l’occupazione: la città non ne ha bisogno, meno che mai un bisogno urgente. Del resto, ci dice il direttore di “ArcipelagoMilano”, in Italia siamo incapaci di realizzare opere costose e complesse. Non solo: le nostre leggi ci impediscono di progettare partendo col piede giusto, perchè non regolano il rapporto fra proprietà privata e interesse pubblico. Da ciò schermaglie legali che ci costringono a sforare i tempi previsti, superando per giunta i preventivi. Si rischia insomma di creare grandi disagi ai cittadini senza nemmeno garantire che le opere vengano finite.
Si direbbe che Beltrami Gadola pensi che i Navigli debbano essere scavati ex novo. Si direbbe anche che non sappia che il testo referendario parlava di “graduale riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di fattibilità“, come riafferma anche il nuovo PGT.
Ma soprattutto si direbbe che egli ignori che 489.727 milanesi (pari al 94% di chi ha votato al referendum) si sono già espressi favorevolmente sull’argomento, senza fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Lo si direbbe, ma è chiaro che non lo ignora: quindi vorrei chiedergli se il fatto che su circa 1.340.000 abitanti totali (neonati compresi) mezzo milione abbiano risposto “sì” alla domanda “Volete voi…?” non conta nulla. O pensa che gli elettori di centro-destra che, per calcolo antidemocratico centrale, non presero le schede dei referendum voterebbero compatti “no”? Benché Letizia Moratti avesse cominciato a muoversi (velleitariamente) a favore di una qualche riapertura, e il suo ex assessore Edoardo Croci sia il presidente del comitato “MilanoSiMuove”, che i referendum ha promosso? 
Una lettura singolare, in cui sarebbe parso preferibile trovare motivazioni in positivo a favore di un’opera più che motivazioni in negativo contro un’altra opera. In cui avremmo voluto trovare un ragionamento che non si mordesse la coda, una linea di pensiero che una volta indicato il criterio delle priorità non rimandasse a ciò che è “indifferibile”, evidente sinonimo di “prioritario”. Confesso, visto che il discorso di Beltrami Gadola insiste soprattutto sugli ostacoli alla riapertura, trascurando i potenziali vantaggi (fra cui c’è persino la redditività: vedi, almeno per quanto riguarda la Conca di Viarenna, lo studio dell’Università Bocconi, in data 28 marzo), che mi sono accinto con una certa apprensione a leggere il pezzo del Corriere del 2008 da lui linkato (vuoi vedere che il geometra citato lì ha in mano la chiave che chiuderà per sempre la porta dei Navigli?).
E sono rimasto sbalordito: l’uomo non racconta solo cose di quarant’anni fa, parla anche del presente e ci spiega, tirando fuori dai cassetti lettere, foto e bozzetti (se li è portati a casa?), che “è il momento di svelare quello che molti ignorano”. Dice proprio così. Lui a quanto pare ne ha scritto al Comune, che evidentemente non ha le sue informazioni e forse nemmeno i documenti: cosa molto sensata se solo avesse sentito il bisogno di parlarne anche pubblicamente. Invece ha fatto questi accenni al redattore del Corriere e, come si dice, morta lì. Però quel che ha raccontato, seppure contraddittorio, evasivo, illogico e anche errato, a tratti criptico, meriterebbe un approfondimento: gli avrei parlato volentieri, conscio del fatto di non avere la sua esperienza, ma non so dove abita e neppure se è ancora vivo. Oggi in Rete si trova quasi tutto, ma avrei dovuto sapere come si chiama la persona e questo nell’articolo non c’è! Un errore di chi ha caricato l’Archivio del Corriere? Tutto è possibile, ma va detto che questo articolo confuso (il cronista ci ha messo del suo: per esempio, cos’è la prima cerchia?) non poteva certo “convincere i Talebani dei Navigli” a mettersi il cuore in pace: una fonte anonima e non controllabile! Una voce narrante che ci raccomanda di considerare “i pericoli in caso di eventuali errori”. Roba da non credere.         
Anche perchè Armando Stella, il redattore, gli fa dire a un certo punto che la riapertura è possibile, certo! E poco più in là: “è un’impresa quasi impossibile”. Poi gli domanda: “Vale la pena riaprire la fossa?” e l’anonimo “Troppe trappole nascoste…”. Questa domanda è in genere un invito appunto a rispondere di no: peccato che se le trappole le ha lasciate qualcuno il principale indiziato sia proprio lui, responsabile del sigillamento.
Infine una questione di linguaggio, anzi due: non crede Beltrami Gadola che ci sia una soglia nella polemica che non è permesso superare? Non sente a pelle che la parola “talebani” è una violenza concettuale? Io, per dire, avevo un groppo in gola quando appresi che i talebani veri avevano infine demolito i Buddha di Bamiyan con la dinamite e le cannonate… e se oggi mi venisse chiesto di formulare un paragone lo farei con chi il Naviglio interno ha distrutto, mai e poi mai con chi lo vuole invece riportare a nuova (ma non filologica) vita. Per non parlare della violenza che i talebani esercitano sulle persone, e in particolare sulle donne.
Inoltre colgo una precisa volontà nell’uso dell’espressione “fossa interna” o peggio “fossa”, che non era cosiddetta perchè questo era appunto il suo nome, e non “cerchia”. Capiamoci bene: io non ho nulla contro queste parole, al contrario mi seducono perchè mi paiono evocare un fossato antico e collocato nel cuore nascosto di una città, anche più di quanto non accada per Milano. Tant’è che su questo argomento scrissi molti anni fa un articolo per una rivista di costruttori milanesi.
Ma a qualcuno non piacciono, evocano addirittura qualcosa di cimiteriale, che poi era l’intenzione (non senza secondi fini) del regime fascista nel “seppellirli”. Anche l’inutile Filippo Turati sentiva un alone di morte attorno ai Navigli e infatti dedicò un grottesco componimento “poetico” al Tombone di San Marco, da lui collocato ben 700 metri più a sud di dove in realtà si trova e attribuendo al termine “tombone” un senso assai diverso da quello che ogni ingegnere idraulico può, e ha sempre potuto, spiegare. Ma Turati era di Canzo.
Il milanese Beltrami Gadola invece (“oggi, come non mai”) non vorrebbe più “sentir parlare della riapertura della fossa” da quelli che la mettono in cima a tutto. Cosa dovremmo fare, parlare soltanto della tutela di ciò che non è mai stato sepolto? E perchè, è solo la Cerchia che manca, il cuore visivo e strutturale dell’intero Sistema. Sepolto con un atto d’arbitrio di Mussolini, un arbitrio che fu tale anche per le regole del regime. No, in tutti i sensi non sarà una banale ricreazione.
PS: all’incrocio fra via Senato e corso Venezia cos’hanno trovato, secondo il pezzo del Corriere della Sera: una soletta, un gradino, un buco? certo non sono la stessa cosa. Mi coglie un orribile dubbio: forse il geometra parlava di una i-soletta? un solo manufatto portava questo nome nella Cerchia e si trovava precisamente lì, come foto e quadri documentano in abbondanza.
Alberto Lipparini*

*”laboratorio Darsena”
http://www.arcipelagomilano.org/archives/22607


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